I Presocratici da Talete ai Sofisti
Giulio Pagallo
ERACLITO
(Ἡράκλειτος) di EFESO, figlio di Blysone. – Filosofo presocratico, la
cuiconcezione del divenire incessante della realtà, rappresenta l'antitesi più
diretta alla teoria dell’immutabilità dell’essere sostenuta da Parmenide;
opposizione che nei sistema posteriori, sino a Platone e Aristotele, sarà
motivo per una nuova e più elaborata formulazione della metafisica e la teoria
della conoscenza.
SOMMARIO: I. Vita e opere di E.: tradizione dossografica e
interpretazioni moderne - II. Significato e valore della sapienza. - III. Il
divenire della realtà e i contrari; il fuoco ed il Logos. - IV. Il significato
del «discorso» di E.
1. VITA E OPERE DI E.: TRADIZIONE DOSSOGRAFICA E INTERPRETAZIONI
MODERNE – Poco sappiamo della sua vita; è probabile che le notizie riportate
dalla dossografia - che lo dice attivo negli anni della 6a olimpiade, cioè nel
504-501 a. C. (DIO. LAE., IX, 1-17: DK FVS, 22 A I) -, siano rielaborazioni
di quanto, nei suoi scritti, sembrava riferirsi al carattere del filosofo.
Erede del re di Efeso, al cui titolo rinunciò a favore del fratello, e di portamento
orgoglioso (STRABONE, XIV, 3: A 2; DIO LAE. cit.)., E. avrebbe avuto uno
scambio di lettere con Dario, re di Persia dal 522 al 486 a.C., del quale
tuttavia non accolse l'invito di recarsi a corte (ibid.; CLEMENTE AL., Strom.,
I, 65: A 3). Per quanto E. dichiarasse di non aver avuto altro maestro che se
stesso (A, Ia), la cronologia della sua vita, e più ancora l'analisi del suo
pensiero, ci consentono di situare la sua filosofía all’interno dello sviluppo
della filosofia presocratica, fra Pitagora e Senofane da un lato, e Parmenide
dall'altro. Contro i primi, il filosofo di Efeso indirizza esplicitamente le parole
polemiche di un frammento (B 40); mentre, per consenso pressoché unánime degli
interpreti, l’opera di PARMENIDE, fondatore dell’ELEATISMO, contiene un
giudizio molto severo nei confronti dell’intuizione filosofica centrale di E.,
«da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui
di tutte le cose il cammino è reversibile» (DK cit., 28 B 6). La tesi
contraria, secondo la quale E., più giovane di Parmenide, avrebbe invece
conosciuto l'opera dell'eleate e si sarebbe riferito al monismo ontologico
dell’eleate, per affermare più risolutamente il principio opposto della «guerra»
dei contrari e dell’universale fluire delle cose -, è stata sostenuta con sottigliezza
non convincente da KARL REINHARDT, in un libro giustamente famoso del 1916. In
effetti, la critica eraclitiana, con maggior cautela, ha preferito muoversi in
due diverse direzioni: da un lato, si è tentato di sostituire all’ordine
esteriore assegnato per scrupolo filologico ai framm. da HERMANN DIELS nella
sua grande raccolta, una disposizione che rispecchiasse, nei limiti del
possibile, se non il «sistema», almeno la successione degli argomenti via via
affrontati nello scritto originale; altri studiosi, invece, si sono volti a
ricostruire il significato autentico della speculazione di E., puntando a riesaminare,
sulla base dei framm. conservati, le testimonianze di PLATONE ed ARISTOTELE; e
di qui, risalire al nucleo originario della dottrina, liberato dal peso delle assimilazioni
operate successivamente dallo STOICISMO e SCETTICISMO. In questo senso, per
esempio, è stata sollevata la questione se le tesi eraclitiane del «tutto
scorre» e del «fuoco» produttore di tutte le cose, vadano giudicate come indizi
rilevanti del rapporto di continuità che l’indagine di E. manterrebbe,
nonostante tutto, con le cosmologie delle «scuole» anteriori, specialmente con
quella di Mileto; o se, al contrario, testimonino l’avvenuto distacco del
filosofo dalle dottrine tradizionali, in quanto egli non mirerebbe tanto a
scoprire l’«origine-principio» della natura, quanto a rivelare la «verità»
della «legge» immutabile che regola, nel profondo, l’eterno divenire degli
eventi. Documento intensamente teoretico di questa prospettiva interpretativa,
appare la lettura dei framm. condotta da MARTIN HEIDEGGER, nel quadro di una
suggestiva quanto discussa «ripetizione» dell’intera filosofia dei
«presocratici»: la presunta «oscurità» di E., debe essere intesa come
espressione genuina del pensiero «originario», non ancora prigioniero della metafisica
che ama rappresentarsi l’«essere» come «sostanza», dimenticandone la dimensione
autentica; perciò all’«oscuro» di Efeso è aperta la possibilità di pensare
l’«essere» nella «natura» ( e cioè il manifestarsi dell’«ente» e il suo
venire alla luce (del fuoco) e alla «verità», fuori dall’«occultamento» ().
Come è noto, anche il filosofo dell’idealismo GEORG WILHELM HEGEL, nel corso
delle Lezioni sulla storia della filosofia, si era soffermato,
all’inizio del sec.XIX, sull’«oscurità» di E., che, contrariamente alla
valutazioni stilistica e a quella del deliberato propósito (secondo il giudizio
di CICERONE), ritenne espressione della profondità speculativa del pensatore,
il quale per primo aveva saputo attingere il «principio» dialettico della
realtà, consistente nell’«universale concreto» della sintesi degli opposti. Gli
studi più recenti, pur raccogliendo l’indicazione di un E. «dialettico», hanno
badato a precisare la questione, soprattutto contestualizzando in modi più
precisi la pluralità delle strutture oppositive che si riscontrano nei framm.
II. IL SIGNIFICATO DELLA «SAPIENZA». - Dell'unica opera Sulla
Natura () composta da E., conserviamo un centinaio di framm. in
prosa ionica, il cui stile, sin dall’antichità, è stato giudicato enigmatico e
forse rispondente ad una scelta consapevole del loro autore. In realtà, il tono
oracolare e il linguaggio fortemente simbolico usati da E., mirano a porre in
guardia chi legge o ascolta, predisponendolo alla rivelazione del «logos», o
«parola» autentica, che, in quanto tale, è insieme «verità» e «realtà»
universale: «Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia
prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti
tutte le cose accadano sempre secondo questo logos, essi assomigliano a persone
inesperte» (B 1).
Tuttavia, proprio di questo si tratta, giacché «vi è una sola
sapienza: conoscere la Mente che tutto governa penetrando in tutto» (:
B 41). Ma a questo sapere superiore non si accosta chi rimane chiuso nelle
pratiche rozze e deliranti dei riti magici e delle credenze religiose: «rimedi»
(B 68) che a nulla conducono, se è vero che gli iniziati ebbri non riescono a
nascondere la loro ignoranza (B 95), e gli adepti non ricavano dai sacrifici
cruenti alcuna regola che li aiuti a vivere (B 117; cfr. B 71). Anche ciò che
dicono i poeti è condannato da E., poichè i loro versi si limitano spesso a riflettere
le superstizioni religiose più diffuse nel popolo, nei confronti delle quali
attuano semplicemente come tecnica sistematrice e purificatrice (ERODOTO, II,
53). Anche Omero ed Esiodo pretendono di comunicare l’intelligenza delle cose
divine e umane, e proclamano il principio che «tutto è uno»; eppure, a loro
sfugge l’essenziale, l'unità profonda delle cose visibili (cfr. B 56, 57). Il
canto degli aedi, in realtà, perpetua nella pigra coscienza dei più, massime e
precetti che non hanno verità né fondamento: contro la loro vanagloria, E.
rinnova la entenza di BIANTE, l’antico sapiente (DK FVS, 10 A,3): «i molti
sono cattivi, i buoni pochi» (B 104). L'aristocratico disprezzo per ciò che i
poeti e le sette religiose presumono di insegnare, nasce dalla consapevolezza
che il filosofo ha di non poter ripetere da altri, se non dal proprio impegno
razionale e dall'osservazione personale, la soddisfazione della inesauribile
domanda filosofica: «i limiti dell'anima forse non potrai mai trovarli,
qualsiasi via tu percorra: così ha profonda la sua ragione» (: B 45). E.
«diceva di aver ricercato da sé e da sé tutto aver appreso» (A 1; cfr. B 101);
ma questa che il dossografo chiama «stranezza», racchiude il segreto e la ricchezza
della sua e di ogni altra filosofia, per la quale, sempre, «uno vale diecimila»
(B 49). In questa presa di coscienza, è dato cogliere un’ulteriore
testimonianza di quell’appello alla indagine personale e diretta delle cose (),
presente, oltre che in E., in tutta la tradizione filosofica e scientifica
ionica, i cui rappresentanti, mentre procedono alla razionalizzazione delle
teogonie e cosmogonie tradizionali, danno alle proprie parole il tono della
critica e del distacco individuale. Non diversa, apparentemente, la
proposizione eraclitea: «Io ho cercato in me stesso» (B 101); ma in questo
caso, l'individuo non è il singolo ( ), poiché egli riconosce se
stesso negli altri, in quanto «a tutti è comune la facoltà di pensare» (B 113)
e «a tutti gli uomini è possihile conoscere se stessi ed essere saggi» (B 116).
La partecipazione degli uomini alla «sapienza», è esperienza di verità e
realtà: essa induce a seguire «ciò che è comune», vale a dire «questo logos
comune» (B 2), perché chi «parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è
comune a tutti, come una città sulla legge, anzi molto più saldamente. Poiché
tutte le leggi umane sono nutrite dall'unica legge divina, in quanto essa
domina tanto quanto vuole, e basta a tutti e trionfa» (B 114). L’universalità
del «principio», di per sé non è sufficiente a garantirne il possesso da parte
di tutti: proprio per attingere il piano dell’auspicata partecipazione, a
ciascuno è imposto, infatti, di superare i limiti del punto di vista personale
(B 2); e al sonno delle opinioni è contrapposta la veglia del vero sapere (B
1). La polarità dei termini usati, dà risalto alla condizione aporetica in cui
viene a trovarsi inizialmente la ricerca della verità, dopo che sono stati
revocati in dubbio non solo i dati dell’esperienza sensibile, ma anche le certezze
trasmesse dalla tradizione e dal costume.
A segnalare l’altezza della meta prefissata, E. può dire che «di
quanti intesi la parola, nessuno giunse a questo, a conoscere, cioè, che la
sapienza è una cosa separata da tutte le altre» (B 108); in questo senso, la
critica rivolta alle dottrine degli altri scrutatori della natura, i fusiolovgoi,
più che tradire la polemica invidiosa, ha il carattere del superiore
inveramento, operato da chi è finalmente giunto al logos comune e
osserva quanti vivono nel mondo illusorio della loro privata intelligenza (B
89; cfr. 2). Questa si nutre delle certezze sensibili; ma colui che,
allontanandosene, riesce a riflettere sul mutare continuo delle percezioni,
capisce quanto le loro attestazioni siano problematiche: esse, infatti, non
solo si susseguono incessantemente, ma sono, a ben vedere, discontinue e, a
causa dell’assolutezza cui ciascuna pretende, recíprocamente antitetiche. Da un
lato, dunque, il «fluire di tutte le cose», allorché viene affermato nella sua
più perentoria immediatezza, rende impossibile la conoscenza: «non è possibile discendere
due volte nello stesso fiume» (B 91), perché «sopraggiungono sempre altre e
altre acque» (B 12); e noi stessi «scendiamo e non scendiamo in uno stesso
fiume, noi stessi siamo e non siamo» (49). D'altra parte, la difficoltà – che
nasce all’interno di quell’orizzonte d’indagine che E. ha in comune con quanti
prima di lui hanno ricercato l’origine () del mondo -, non si risolve
traducendo la molteplicità cangiante degli enti, in quella non meno caotica dei
«nomi». In questo caso, l'intelligenza «privata» del singolo crede di poter
dominare la realtà attraverso il linguaggio; ma è un’illusione, perché i nomi
dicono solo aspetti parziali delle cose; anzi, tendono a fissarne i fluidi rapporti
in separazioni o esclusioni insormontabili. C’è chi ha cura di accumulare
notizie e raccogliere dati: «nomi» appunto; ma «sapere tante cose (
non insegna ad avere intelligenza», cioè quel sapere vero che né Esiodo né
Pitagora, né Senofane né Ecateo ebbero mai (B 40; cfr. 129). Anche loro «anime
barbare», in un certo senso, come quelli che credono, non guidati dalla
ragione, alla testimonianza degli occhi e delle orecchie (SESTO EMP., Adv.
math., VII, 126 sgg.), e non riescono a cogliere «l'armonia nascosta che è
migliore dell’apparente» (B 54): insomma, anche di quei personaggi può dirsi
che sebbene «presenti, sono assenti» (B 36) all'intuizione dell’unità del Logos
(50).
III. IL DIVENIRE DELLA REALTÀ E I CONTRARI; IL FUOCO E IL LOGOS. -
A questa unità occorre ritornare sempre di nuovo, se si vuole penetrare a fondo
il divenire e la molteplicità dell’esperienza, disponendone la ricchezza
sterminata secondo la trama intelligibile del «discorso» razionale. La
distinzione fra i molti «nomi» e l’unità del «principio» reale, che E. ha
stabilito polemicamente nei confronti dei filosofi ionici ed italici -, serve a
introdurre l’ulteriore approfondimento della ricerca: gli enti che i «nomi»
mostrano, conservano in sé, in certa misura, la «ragione», o natura, del Logos
immutabile che produce le cose e le governa in ogni punto. «Prendere nome» ()
equivale, da questo punto di vista, al «trasformarsi» () del Logos
(B 67) nelle realtà che vengono all’esistenza, manifestando in ciascuna di esse
e nel loro insieme, la potenza autónoma ed infinita che gli è propria, come
l’anima che cresce su se stessa, in virtù della ragione che le appartiene (B
115). Ora che E. procede sulla via costruttiva del sistema, la frammentazione
derivante dall’imposizione dei «nomi», appare sotto una nuova luce: la natura
particolare di ciascuna cosa si concilia il continuo reale, dato che nelle
«parole» in cui il «logos che è sempre» si manifesta, è possibile leggere la
vera legge del principio comune (B I). Solamente in questo modo, l’indagine sui
«nomi» evita di essere esercizio superficiale ed il confronto fra i diversi
loro significati fa emergere assonanze concettuali e reali, ciascuna delle
quali reca ulteriore conferma dell’unità del Tutto. Le due vie «all’in su» e
«all’in giu» - per cui, da un lato, le cose molteplici sono ricondotte all’«origine»
unica da cui provengono; e, in senso contrario, dal «principio» depende necessariamente
l’esistenza di ogni ente - sono, in realtà, figure di uno stesso cammino, poiché
esse riflettono la natura peculiare del Logos, che contiene in sé i momento inscindibili
dell’unità e della distinzione (B 10; 60). Del Logos si dice, inoltre, che si comunica
a tutto e di tutto partecipa, per cui esso è la «misura» dell’ordine che regna nel
cosmo, cui nulla si sottrae. In ognuna di queste note, è ribadita la natura profondamente
ambivalente del «principio», che può essere detto «comune», solo in quanto è in
sé unificazione del molteplice e dell'uno: la sua natura più vera consiste, infatti,
nell'essere legge di «armonia reciprocamente tesa» (B 51).
All’opinione che ritiene che i contrari si escludano
reciprocamente, E. obietta che gli stessi devono essere pensati, invece, come
specularmente integrati; nel senso che le cose che compongono la realtà,
possiedono una comune struttura oppositiva, che risulterebbe descritta in modo
del tutto insufficiente, ove si facesse riferimento unicamente al contrasto che
mantiene separato l’un contrario dall’altro. Anche la cosmologia di
ANASSIMANDRO (v.), in effetti, prevede la lotta dei contrari in seno all’«infinito»;
e ANASSIMENE (v.) fa ricorso al processo di condensazione e di rarefazione dell’«aria»;
più tardi, EMPEDOCLE (v.) escogiterà la contrapposizione fra Amore e Contesa.
Ma proprio sul ruolo dell’opposizione e la diversità che separa, a questo proposito,
il pensiero di E. da quello empedocleo, si sofferma PLATONE (Soph., 242
D), il quale osserva come per il filosofo di Efeso ogni momento dell'essere
riproduca in sé la natura ambivalente del «principio». Uno e molteplice, esso è
sempre, secondo E., «tutto e non tutto, connesso e separato, concorde e
discorde» (B 10); e «il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace,
carestia ed abbondanza» (B 67; cfr. 65), tanto che «vuole e non vuole essere
chiamato Zeus» (B 32): iI «tutto», perciò, non può evidentemente coincidere con
uno dei contrari, preso separatamente. Questione importante, e altrettanto
difficile, è, invece, capire il significato profondo di ciò che E. chiama
l’«opposto concorde», che sa trarre «dai discordi bellissima armonia» (B 8); ed
è quella verità che il filosofo, come «il signore il cui oracolo è a Delfi, non
dice né nasconde, ma segnala» (
B 93), e che nessuno finora è riuscito acomprendere. Essa è l’armonia che
scaturisce dalla struttura oppositiva «comune» ad ogni ente; per cui, tutto ciò
che esiste, «pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante,
come quella dell’arco e della lira» (B 51), e quella per cui «nel circolo
principio e fine fanno uno» (B 103); essa è il vincolo della giustizia
superiore che tiene uniti i contendenti e fa della contesa la «misura» stessa
di ogni esistenza, a cui niente e nessuno potrà mai sottrarsi (B 80; cfr. B
94). Dando credito a opinioni ed esperienze ingannevoli, nel loro dire e fare
gli uomini si comportano come se enti separati e fra loro estranei
costituissero il mondo; occorre invece tener fermo il principioche «il dio è
giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazità fame, e muta come ,
quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi» (B 67);
che, dunque, «unico e comune è il mondo» (B 89) e che «la stessa cosa sono il vivente
e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti
mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi» (B 88; cfr.B 126).
Allo stesso modo, «gli uomini hanno considerato alcune cose ingiuste, altre
giuste», quando invece «per Dio, tutte le cose sono belle, buone e giuste» (B
102). Nessun giudizio di valore che isoli il positivo dal negativo, pertanto,
accede all’intelligenza della natura dell’intero, dato che l’essenza stessa
dell’«uno-tutto» si dispiega nelle «connessioni» ( che tengono insieme
«intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico e da tutte le cose
l’uno e dall’uno tutte le cose» (B 10). Coincidenza dei due processi, per cui
il Logos tanto più esercita la sua funzione coesiva, quanto più si distingue ed
opone nella varietà delle esistenze; così come queste ultime di quanto si
divaricano nell'opposizione, di tanto rientrano nella struttura razionale
dell'unica legge.
È necessario, tuttavia, conservare la «misura» storica del «logos»
di E., ed interpretare l’originalità del «principio» dialettico che il filosofo
annuncia, senza trascurare le suggestioni poetiche e religiose che ne
condizionano il concreto suo manifestarsi, e i collegamenti che esso conserva
con le teogonie e cosmogonie precedenti. In questo senso, il pensatore «oscuro»
eredita la tradizione dei «fisiologi», e prosegue il processo di
razionalizzazione del mito genealogico. Anche per E., infatti, la teoria
generale della realtà si risolve, in larga parte, nei temi
dell’«origine-principio» del mondo, e il «logos» può essere legge immanente del
divenire, perché ne è, insieme, la causa materiale. L'interpretazione trova
conferma dall'analisi del fram. 30, dove l'universalità dell'ordine cosmico,
che è il medesimo per tutti (vale quanto la
sua durata infinita nel tempo e coincide con il
«fuoco vivente in eterno» (), il quale «con misura si accende e con
misura si spegne» (), e, così facendo,
produce da sé tutte le cose. Se si tiene conto che di «ciò che è» ingenerato e imperituro,
PARMENIDE dirà che «non era mai, né mai sarà, poiché è ora insieme come totalità»
, 5), il contrasto puntuale tra
le due concezioni dell’essere in rapporto al tempo, illumina la dimensione
autentica della filosofia eraclitea.
In questa prospettiva, la dottrina di E. appare come l’ultimo
tentativo, prima della «crisi» aperta dall’ELEATISMO (V.), di pensare in
termini rigorosi il nucleo centrale del mito e delle cosmogonie antiche, vale a
dire il rapporto fra il «principio» originario divino, e il tempo. Il «fuoco»
di cui parla E., per l’ambivalenza che gli deriva dall’essere «connessione» di
opposti, viene idealmente prima dell'antinomia fra essere e non essere,
sollevata dalla logica eleatica; la sua «misura» non è l’«ora» () del
presente senza fine, ma l'indeterminatezza temporale dell'ajeiv, la cui
progressione non conosce termine. Di qui deriva la rappresentazione cosmologica
del «fuoco», inteso come principio delle sue proprie «mutazioni» ,
che scandiscono la successione e durata delle realtà prodotte (B 31); la cui
molteplicità, peraltro, è così intrínsecamente connessa alla natura del principio,
da non potersi considerare prolungamento «esterno» e posteriore di quello:
«mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le
cose, allo stesso modo dell’oro con tutte le cose e di tutte le cose con l’oro»
(B 90). Mutano senza fine le forme concrete in cui il «fuoco» si manifesta; ed
il ciclo incessante di vita e morte degli individui, che rappresenta il
«mutamento» originario ed essenziale del «principio», riflette in se stesso
l’armonia discorde dell’«uno-tutto» che manifesta.
La complessità delle questioni introdotte da E., emerge pienamente
allorché il tema cruciale dell’unificazione degli opposti, viene formulato nel
linguaggio della rappresentazione cosmologica. Nel passaggio, il profilo logico
della struttura oppositiva perde in precisione, e subentrano coppie di contrari
empiricamente esemplificate, formalmente dissimili, ma tutte riferite al
«fuoco» sostanza universale. Tutto questo è certamente conferma di un’ancora
insufficiente distinzione fra descrizione e definizione, giudizio d’esistenza e
predicazione; occorre, comunque, prendere atto di come la dottrina del «fuoco»,
pur rimanendo all'interno della mentalità ionica, cerchi di dar risposta
anticipata alla difficoltà che Aristotele avanzerà nei confronti del modelo cosmologico
usato dai presocratici: «Infatti, quando pure ogni generazione e corruzione fosse
da uno solo, ovvero anche da molti elementi, perché poi ha luogo e quale ne è
la causa?» (ARISTOTELE, Metaph., A, 984 a). Da un lato, infatti, avendo
trasferito nella mobilità materiale del «fuoco» la legge logica
dell’unificazione dei contrari, quest’ultima si risolve nel sistema delle
«connessioni» empiricamente describili; le quali, peraltro, conformemente alla
«via all’in su», trovano fondamento nella sostanza primigenia, sottratta
all’indeterminatezza dell’apeiron di ANASSIMANDRO. D'altro canto, la
permanente mobilità della natura ignea, meglio dell’«acqua» o dell’«aria» dei
«fisiologi» milesii, è «segnale» adeguato degli aspetti costitutivi della natura
e della loro intrínseca connessione: non semplice simbolo, il «fuoco» dà volto,
in primo luogo, alla legge che regola dal profondo e rende intelligibile la
vicenda perpetua della vita e della morte; secondariamente, è materia che si
trasforma (ibid., A, 984 a 18), e che «discorrendo» nelle sue varie
trasformazioni, le mantiene ordinate «secondo quella stessa legge (»
che esisteva prima che ciascuna di esse si manifestasse, divenendo l’una o
l’altra cosa (B 31); logos che non è diverso dal «fuoco» eterno che si
accende esi spegne «con misura» (cfr. B 30).
Le fasi della produzione cosmica si susseguono circolarmente e per
antitesi: in un caso, «l'anima muore in acqua e l'acqua muore in terra; ma
dalla terra nasce l'acqua e dall'acqua l'anima» (B 36). Pertanto, analogamente
al punto geometrico, la cui unità contiene in sé perfettamente coincidenti il
principio e la fine della circonferenza -, il «fuoco», che è «uno-tutto»,
unifica in se stesso i termini che nell’esperienza appaiono separati, senza mai
sostare presso l’una o l’altra delle singole determinazioni (B 50; 10). Proteso
fra gli estremi della produttività più intensa ( o della più
raccolta pienezza ( fra lo stato di indigenza e quello di
abbondanza, il «fuoco» si scambia mutuamente con le sue produzioni (B 90), e su
tutte imprime il suggello dell’ambivalenza formale e materiale che appartiene
al «principio».
La concezione radicale che E. ha del movimento incessante del
reale, come fiume dalle «acque sempre diverse» (B 12), in cui è impossibile
bagnarsi due volte (B 49a; 91), e per cui «il sole è ogni giorno nuovo» (B 6),
nulla ha a che vedere con quanto l’ERACLITISMO (V.) posteriore sembra abbia
sostenuto, concependo il mondo come mera successione di eventi-percezioni
assolutamente irrelati, in nessun modo riconducibili ad un qualche disegno
unitario. Al contrario, nelle acque del fiume eracliteo che scorrono sempre
nuove, si specchiano nitidi i profili dell’identico e del contrario, della
guerra e della pace, nel cui costante richiamo si manifesta «la ragione per la
quale tutto è governato attraverso tutto»
B 41), la quale sottopone le molte forme dell’esperienza ad una sempre uguale
«misura», così come dall’unica legge divina traggono alimento tutte le leggi
umane (B 114).
IV. IL SIGNIFICATO DEL DISCORSO DI ERACLITO - Concordemente
alla visione miticoreligiosa del mondo, la «guerra» dei contrari che
è «comune» a tutte lecose e per la quale «tutto accade secondo contesa e
necessità» B 80), assume valore di legge etica. Le letture
moderne più avvedute di E. – salvo adottare qualche rubrica di pratica utilità
-, non hanno imitato i commentatori antichi, separando i testi presuntamente
«fisici», da quelli di argomento teologico ed etico-politico. In verità, non
esiste discontinuità alcuna nel «discorso» del filosofo di Efeso: l’invito che
egli rivolge agli uomini, di prestare ascolto alla ragione, riguarda indistintamente
il loro impegno conoscitivo e pratico.
Allargare il campo della propria particolare esperienza e
riconoscere il logos, impone il dovere di «seguire ciò che è comune» (B
2), per non «agire e parlare come se si stesse dormendo» (B 73). Due momenti
indissociabili: la sapienza che «consiste nel dire e fare cose vere,
comprendendole secondo la loro natura» (B 112) – altrimenti anche il mondo più
bello non sarebbe che un mucchio di polvere raccolto alla rinfusa (B 124) -,
nel mentre consente di capire che ogni cosa vive «secondo giusta misura» (B 30),
insegna anche a «spegnere la superbia ancor più dell’incendio» (B 43) e
a realizzare la virtù della moderazione. Criterio di condotta suggerito, in
primo luogo, dall’ininterrotto trasformarsi del «fuoco», che ordina il destino
di ogni essere sensibile; ma che, in ultima istanza, deriva dai significati
etici e giuridicamente normativi che quel medesimo «ordine» porta con sé.
Infatti, alla luce della «contesa» universale che la pone in essere, la
diversità delle cose, oltre a rispondere alla necessità «fisica», ubbidisce a
una precisa norma di diritto naturale: «la guerra è padre di tutte le cose e di
tutte re: e gli uni fece che apparissero dei, gli altri uomini; gli uni fece
servi, gli altri liberi» (B 53). In questo modo, l'opposizione, che come Logos
divino trascina ogni ente ed è condizione indispensabile delle cose («le cose
esistono secondo contesa e necessità»: 80), diventa, alla fine, valore e
strumento di superiore giustizia (ibid.). La vita dell’uomo, come di
ogni altro vivente, è inscritta nel fiume dell'esistenza, le cui acque – osserva
ARISTOTELE -, non prima si allentano e poi di nuovo si raccolgono, ma insieme
si concentrano e si separano, simultaneamente (B 91); ma da questa vicenda
cosmica, che non avviene a caso, dato che è lo stesso «logos» divino che la
governa per sì e per no, come in un doppio discorso -, ogni individuo e ogni
città ha l’obbligo di desumere l’insegnamento morale più importante. Perché se
la guerra è ovunque presente – nelle conflagrazioni mondiali, come là dove più
ostile ferve la lotta delle passioni nello Stato e nell'animo dell’individuo -,
e se la lacerante contesa vive essa medesima in uno con la pace, virtù suprema
è la moderazione. Che è poi la saggezza di chi sa riconoscere l’alternanza
necessaria dei contrari, e perciò si fa interprete dell'armonia nascosta e bellissima
che nutre e rende perfetta ogni cosa.
Non dunque la vita del singolo in quanto tale è male; bensì il
gesto di chi non tiene lontana da sé la tentazione dell’isolamento caparbio,
l’illusione di poter fermare, dentro e fuori di sé, la trasformazione
incessante. Ritornando, in un certo senso, al detto famoso di ANASSIMANDRO
(v.), E. condanna colui che, credendosi unicamente «figlio dei propri genitori»
(B 74), «ha dimenticato dove porta la strada» (B 71) del «fuoco sapiente e causa
del governo di tutte le cose», il quale, «sopraggiungendo, giudicherà e condannerà»
(B 63) quanti avranno preteso di vivere come singoli, oltre la «misura» che a
tutti è stata assegnata: perfino «il Sole non andrà oltre la sua misura:
altrimenti, le Erinni, ministre della Giustizia, lo scopriranno» (B 94). Tale è
la «superbia», il peccato di tracotanza di coloro i quali,
colpevolmente ignari del calcolo perfettissimo che regola ogni evento, si
lasciano guidare dalla propria intelligenza «privata», che non sa vedere oltre
se stessa e giudica «estranee le cose in cui ogni giorno si imbattono» (B 72),
e verso le quali spesso agiscono con violenza sopraffatrice. «Di fronte alla
divinità» (B 79), le opinioni umane si rivelano per quello che sono: «giuochi
di fanciulli» (B 70), e gesti scomposti di scimmia (B 72). Eppure, «a tutti gli
uomini è dato conoscere se stessi ed essere saggi» (B 116), non andando oltre
la giusta «misura».
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